Titta Ruffo biografia e giudizio critico

Autore anonimo, profondo conoscitore di Titta Ruffo tradotto dallo spagnolo dal libro:

 Biografia y juicio crítico de Tittá Ruffo. – Madrid, Prudencio Pérez de Velasco, 1912 

BIOGRAFIA E GIUDIZIO CRITICO DI TITTA RUFFO 

L’eminente artista Titta Ruffo nacque a Pisa (Italia) il 9 luglio 1877.

Quando aveva appena tre anni suo padre, Oreste Titta, si trasferì a Roma dove aprì una fucina.

Mentre il padre lavorava senza tregua per tentare di costruire un futuro per la sua famiglia, sua moglie, Amabile Sequenza, morta sette anni fa, si occupava dell’educazione dei figli, mostrando una predilezione per l’uomo che, trionfo dopo trionfo, riuscirà a conquistare fama e successo nel mondo.

Da questo matrimonio nacquero sei figli, quattro femmine: Velia, Fosca, Settima e Nella e due maschi: Ruffo ed Ettore.

Titta Ruffo compì i suoi primi studi a Roma e, una volta terminati, il padre lo prese a lavorare nella sua fucina.

Lavorò sempre con grande costanza e volontà tanto da diventare un genio del mestiere. Mostrò intuizione artistica nel costruire gli oggetti più stravaganti. Quando passeggiava per i prati soleva raccogliere fiori o foglie che più gli piacevano per poterli riprodurre poi in ferro.

Prova della sua superiorità in questo mestiere fu la realizzazione della corona di ferro che si trova a Parigi in cima al mausoleo di Carnot, ex presidente della Repubblica francese.

Questa opera fu realizzata da Titta Ruffo, il quale ottenne elogi da svariati intellettuali e anche un diploma dal Governo italiano come premio per questo lavoro artistico.

Ad appena cinque anni cominciò a sviluppare una passione smodata per la musica.

Un giorno andò al teatro Quirino mentre stava recitando un’ottima compagnia teatrale e rimase incantato nel sentire Favorita, quasi sicuramente cantata da Cartica.

Quando tornò a casa iniziò a canticchiare Spirto Gentil con una voce talmente dolce e melodiosa che suo fratello Ettore, all’epoca studente di armonia al Conservatorio di Roma, rimase sbalordito e gli disse: “Ruffo lo sai che hai una bellissima voce da tenore? Devi esercitarti. Canta di nuovo mentre io ti accompagno con il flauto”. Una volta terminata la canzone lo abbracciò e gli augurò un futuro glorioso.

Ruffo cominciò ad interessarsi sempre di più al teatro. A quell’epoca a Roma era in scena Cavalleria Rusticana, interpretata dalla celebre Bellincioni e dal famoso Stagno. Ruffo assisteva allo spettacolo tutte le sere trasportato da un grande entusiasmo verso questa forma d’arte.

Il padre si oppose fortemente alla vocazione del figlio ma la madre, al contrario, lo supportò. Senza dubbio lei già prevedeva la gloria che un giorno non lontano avrebbe portato alla sua patria.

Per questo motivo ci furono frequenti litigi in famiglia.

In alcune occasioni i litigi erano così aspri che Ruffo finì per sentirsi dire dal padre parole molto forti: “Puoi andartene subito di casa” gli disse. Ruffo non se lo fece ripetere due volte. Quel giorno se ne andò dalla casa paterna e si diresse verso Albano con in tasca soltanto una manciata di lire che gli aveva dato di nascosto la madre.

Prima di arrivare in questo paese gli capitò un evento degno di essere raccontato.

Vagava senza meta per la campagna romana quando, al tramonto, incontrò un pastore che stava passando il tempo suonando uno strumento campestre. Di tanto in tanto intonava allegri canti popolari.

 Ruffo si avvicinò e gli chiese quale strada prendere per arrivare al paesino più vicino.

Così intavolarono una bella chiacchierata che finì per incentrarsi sulle canzoni che il pastore stava canticchiando prima.

Titta gli rivelò che anche lui ne sapeva alcune molto belle.

“Su, ragazzo, cantamene una” gli disse.

“Non ne ho le forze”. rispose Ruffo. “Io posso offrirti solo del latte” disse il pastore e gli diede quello che aveva.

Dopo aver bevuto iniziò a cantare con uno slancio tale da incantare il pastore, il quale non poteva credere che quella voce uscisse dalla bocca di un ragazzino.

“Resta qui con me” gli disse con ingenuità il pastore “ti manterrò io e un giorno diventerai qualcuno”.

Chi avrebbe mai immaginato che un giorno Ruffo sarebbe diventato un idolo mondiale e che per sentirlo cantare si sarebbero dovuti pagare 10 000 franchi?

Proseguì per la strada che gli aveva indicato il pastore e nel bel mezzo della notte arrivò ad Albano.

In questo paese trovò lavoro in un frantoio. Il padrone lo pagava tre lire al giorno.

Dopo poco tempo si presentò il padre per riportarlo a casa. Ruffo si rifiutò ma quando seppe che la sua povera madre stava soffrendo molto per la separazione dal figlio prediletto, si rassegnò ai desideri del padre e insieme tornarono a Roma.

Consegnò tutti i risparmi che aveva accumulato in quel periodo a sua madre.

Tornò di nuovo a lavorare nella fucina ma non abbandonò la passione per il teatro.

La casa di Ruffo era spesso frequentata da un baritono che si chiamava Benedetti che, in quanto amico del padre, cercava di convincerlo a far entrare il figlio nel mondo del teatro date le sue doti eccellenti.

A vent’anni si iscrisse al Conservatorio di Roma. Ebbe come maestro di canto Persichini e frequentò le lezioni di declamazione insegnate dalla professoressa e celebrata attrice Virginia Marini.

Tra i suoi compagni di classe troviamo il tenore Bravi, morto prima di aver avuto successo, e il baritono De Luca.

Il maestro Persichini diceva che Ruffo aveva una voce da basso mentre lui sosteneva di averla da baritono; ciò provocò vari scontri che costrinsero Titta Ruffo ad abbandonare il Conservatorio. A Roma cercò altri maestri di canto con i quali restò poco tempo, fino a quando trovò la determinazione per trasferirsi a Milano, dato che suo padre non aveva ancora accettato la sua vocazione. A Milano fece una vita da bohémien attraversando grandi difficoltà. Sua madre gli inviava dei soldi di tanto in tanto.

Alla fine riuscì ad entrare a far parte di una compagnia fondata dal Maestro Mingardi, direttore artistico della Scala. Debuttò quindi al teatro Costanzi di Roma interpretando l’Araldo nell’opera Lohengrin e attirando l’attenzione di molti grazie alla sua bella voce.

In seguito, si spostò a Livorno, dove cantò, tra le altre opere, il Trovatore ottenendo un grande successo.

Poi fece una tournée di sei mesi in Calabria e in Sicilia.

A Salerno mise in scena l’Africana in un teatro modesto avendo altrettanto successo. Da lì in poi iniziò ad acquisire una forte popolarità.

Quando passeggiava per il mercato, tutti i commercianti gli regalavano frutta e verdura e un macellaio suo ammiratore, vedendolo passare davanti al suo negozio, uscì ad incontrarlo e lo abbracciò calorosamente. Tutti i giorni gli inviava diversi tagli di carne e il giorno del suo ultimo spettacolo ricevette molti regali da gente umile e anche un orologio d’oro proprio dal macellaio.

Appena tornato a Milano dovette vendere tutto per poter sopravvivere.

Dopo poco tempo firmò un contratto con la compagnia Ducci Luis in Cile, dove fu acclamato con forte entusiasmo.

Dopodiché andò in Russia dove avrebbe dovuto cantare sei sere ma il successo fu talmente grande che dovette mettere in scena sessanta rappresentazioni nei teatri di San Pietroburgo, Mosca, Odessa e in altre città.

Da lì iniziò la sua celebrità. Tutte le Compagnie se lo contendevano. Accettò un contratto a Buenos Aires dove riconfermò la sua fama.

Il suo nome divenne così popolare che il celebre maestro Toscanini lo portò alla Scala di Milano facendolo debuttare con il Rigoletto, opera che cantò svariate volte alternandosi con i celebri tenori Ibós, Krismer e Anselmi.

Sonzogno volle far conoscere opere di moderni compositori italiani a Parigi e perciò assemblò una compagnia con Pacini, Masini, Caruso, Garvin, Bassi, Sammarco e il fantastico Titta Ruffo.

Nel teatro di Sarah Bernhard, in cui recitava la compagnia, Titta mise in scena, tra le tante opere, Fedora e Siberia del maestro Giordano.

I parigini ricordano ancora i gloriosi eventi organizzati in onore di Titta Ruffo.

Recentemente ha cantato in francese l’Amleto all’Operà di Parigi ottenendo risultati sorprendenti.

È quasi impossibile nominare tutti i teatri in cui ha cantato. Il suo nome è pronunciato con ammirazione in tutto il mondo e conserva preziosi regali e lettere di elogio inviate dagli eminenti baritoni Cotogni, Kaschamann, Maurel e Menotti. Tutti loro lo considerano l’artista più completo della scena lirica.

E come attore, lo considerano fenomenale i suoi amici Zacconi, Novelli e Fregoli.

Tutti i maggiori compositori moderni lo vogliono come primo attore delle opere che scrivono.

I sovrani dei paesi in cui canta chiedono la sua presenza ai concerti di corte, lo festeggiano e gli conferiscono onorificenze.

Lo zar di Russia gli donò la croce di San Stanislao, il re Vittorio Emanuele lo nominò Cavaliere della Corona d’Italia e tre anni fa il re spagnolo gli consegnò prima la croce di Alfonso XII e successivamente lo nominò anche lui Cavaliere.

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Prima di terminare questi brevi appunti vorrei parlare di una celebre artista chiamata Adelina Fanton. Lei è la persona che predisse il glorioso avvenire di Titta Ruffo. Lo incoraggiò in questa ardua carriera ed ebbe una parte importante nei suoi trionfi. Il baritono cominciò grazie ad un suo consiglio a studiare Hamlet che poi portò in scena per la prima volta a Lisbona.

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Titta Ruffo si sposò con un’illustre donna fiorentina. Da questo matrimonio nacque una figlia che chiamarono Velia.

Titta Ruffo è un modello di cavalleria e tutti quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarlo rimangono incantati dalla sua modestia e dal suo carattere gentile.

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Ci sono innumerevoli dettagli della vita del baritono che dimostrano il suo amore per il prossimo, la sua passione per l’arte e la simpatia che ispirava a chi conosceva.

Una volta, quando si trovava a Pisa, sua città natale, una principessa lo invitò a partecipare ad un concerto che si sarebbe tenuto nel suo palazzo.

Ruffo accettò e mentre si dirigeva a casa dell’aristocratica insieme a lei e ad altre persone, riconobbe in mezzo ad un gruppo di curiosi un vecchio amico e collega vestito di stracci e visibilmente malnutrito.

Titta si fece largo tra la folla e gli si avvicinò.

“Cosa ti è successo?” domandò l’artista.

“Oh Cavaliere…”

“Dammi del tu” disse Titta “sono Ruffo, il tuo vecchio amico e voglio fare qualcosa per te. Prendi questo biglietto e vieni a casa mia tra due ore”.

Titta Ruffo si avvicinò alla principessa e le disse: “Voglio far pagare il concerto. Non si tratta di interessi, voglio soltanto fare una donazione ad un mio caro amico che adesso è in miseria”.

Dopo poco tempo questo suo amico ha trovato un lavoro in banca e oggi vive in America del Sud avendo accumulato una sostanziosa fortuna.

La carriera artistica di Titta Ruffo è stata molto spinosa. Per molti anni ha calcato i più importanti teatri in qualità di spalla.

Quando il baritono d’obbligo era indisposto toccava a lui prendere il suo posto. I maestri non gli permettevano di essere originale e limitavano il suo lavoro. Lui soffriva moltissimo la situazione in quanto aveva una fede cieca nella sua arte. Tentava di spiegare ai suoi direttori il motivo per il quale voleva interpretare le opere in maniera diversa rispetto agli altri cantanti.

Ma non serviva a nulla. I maestri erano schiavi delle vecchie abitudini e non accettarono mai i suoi cambiamenti. Lo giudicavano eccentrico.

Aveva la medesima opinione anche un baritono che ha cantato al teatro Real e con cui Titta aveva recitato per alcuni anni.

“Non sarai mai nessuno Ruffo.” diceva per mortificarlo “Hai una bella voce ma nulla di più. Ti manca qualcosa”.

Ripeteva queste frasi giorno dopo giorno e sempre con aria di presunzione, quando finalmente Titta gli rispose con fermezza: “Senta lei signor N… io diventerò più importante di lei nell’opera lirica perché dentro di me so ciò che dovrebbe essere l’arte e il tempo mi sarà testimone. Io sento l’arte nella sua purezza mentre lei la altera”.

In effetti il tempo ha confermato le sue predizioni.

Uno dei suoi maggiori ostacoli nella vita fu perdere tutto quello che aveva guadagnato in una stagione.

Terminato il suo contratto in Cile aveva risparmiato 4 000 franchi e stava aspettando di imbarcarsi per l’Europa.

Quando mancavano due giorni alla partenza, tre malintenzionati lo condussero con l’inganno in una casa da gioco frequentata da criminali. Lì per mezzo di imbrogli toglievano agli sprovveduti tutto ciò che avevano. Anche Ruffo in quella bisca perse tutti i suoi risparmi.

Titta Ruffo uscì di lì con animo pesante. Si ritrovava senza mezzi per poter tornare nel suo paese e senza qualcuno a cui poter chiedere i soldi del biglietto.

Entrò in un bar frequentato da persone con cui aveva stretto una leggera amicizia per vedere se potessero aiutarlo.

Non trovando una soluzione al problema Ruffo si mise a riflettere, quando gli si avvicinò un siciliano, famoso insegnante di scherma e grande ammiratore dell’artista.

“Cosa ti serve? Perché sei solo e triste? Stai male?”

“Sono rimasto al verde”. rispose Titta Ruffo e gli riferì gli eventi accaduti.

“Non ti preoccupare.” gli disse il siciliano “Se verrai con me riuscirai a recuperare il denaro rubato”.

Si incamminarono verso la bisca e dato che i furfanti temevano molto il siciliano grazie alla sua bravura e ai suoi precedenti, riuscirono senza troppi sforzi a riprendere il denaro che gli era stato sottratto.

DUE PAROLE

La rivoluzione che Titta Ruffo ha portato nel mondo della lirica è stata così grande che credo sia giusto fare un giudizio critico della sua originale interpretazione di alcune delle tante opere che costituiscono il suo repertorio.

Rigoletto, il Barbiere e Hamlet sono le opere che ho preso in esame per studiare la personalità artistica di questo baritono.

Il suo modo di recitare e di approcciarsi al palcoscenico sono completamente diversi da ciò a cui, fino ad ora, siamo stati abituati a vedere e per questo motivo è stato giudicato con severità da alcuni critici che sono ancora affezionati ai vecchi metodi.

C’è ancora qualcuno che crede che gli unici trionfi di Titta Ruffo siano stati quelli ottenuti durante le tre stagioni a Madrid. Se potessero leggere i giornali stranieri si convincerebbero del fatto che in Russia l’entusiasmo per questo artista superò anche il nostro. Avvenne la stessa cosa anche a Valencia, Montecarlo, Roma, Napoli, Milano, Buenos Aires e in quasi tutto il mondo.

Si capisce quanto il suo talento e le sue qualità siano davvero straordinarie quando vediamo il suo nome accostato a quello dell’illustre Caruso. Le opzioni sono due: o tutto il pubblico è ignorante o, al contrario, bisogna diffidare di certi critici che si permettono di fare affermazioni senza alcun fondamento contro quest’artista geniale che ha dato nuova vita a quest’arte.

TITTA RUFFO NEL RIGOLETTO

Francesco Maria Piave, illustre scrittore italiano, scrisse un melodramma ispirato al famoso dramma di Victor Hugo chiamato Il re si diverte.

L’immortale Verdi musicò il copione di Piave, intitolato Rigoletto, e sin dall’esordio, che ebbe luogo verso la metà del secolo scorso al teatro La Fenice di Venezia, fino ai nostri giorni quest’opera rimane la prediletta di tutto il pubblico mondiale.

Il maestro ebbe una prodigiosa ispirazione nello scrivere il Rigoletto, opera che apre la vita artistica di Verdi a nuovi orizzonti. La vena melodica, tanto rigogliosa e fresca come nelle prime opere del compositore italiano, viene arricchita dall’andatura graduale degli strumenti moderni e anche se l’orchestra non brilla come nell’Otello, le sue melodie hanno una grazia suggestiva che affascina e soggioga.

Chi al mondo non conosce e canticchia la ballata del tenore, la preghiera del baritono e la famosa canzone La donna è mobile?

Quanti artisti devono trionfi, glorie e carriere all’immortale Rigoletto! Da Brambilla a T. Mirate a Varesi i quali furono i primi intrepreti. Quanti divi hanno conquistato fama grazie a questi spartiti, i quali racchiudono ricordi felici, giorni di gloria, notti trionfali e slanci d’amore!

Quest’ opera sarà per Titta Ruffo il piedistallo della sua fama e il segreto della sua grandezza. Ha una forte passione per il Rigoletto, è l’orgoglio più grande della sua vita artistica. Per anni ha studiato questa bella opera. Il suo temperamento, che si allinea con quello del buffone di corte, lo ha reso padrone dei segreti più profondi che racchiudono le pagine de Il re si diverte.

Titta Ruffo, artista con una naturalezza invidiabile, è riuscito ad identificarsi con il protagonista così meravigliosamente da poter vivere la sua vita, sentire i suoi dolori, partecipare alle sue disgrazie, odiare ed amare insieme a lui. Nessuno, vedendolo recitare, può dubitare del fatto che il buffone che intratteneva Francesco I abbia smesso di esistere. No; quel vecchio decrepito si è reincarnato in Titta Ruffo, il quale si dimentica di tutto e di tutti, si emoziona, ride e maledice, piange e salta; cresce nell’immensità della sua disgrazia davanti ai vili cortigiani e ruggisce come una belva quando gli strappano l’anima e il cuore.

Tutti quanti gli aggettivi d’elogio presenti nella nostra lingua non basterebbero a descrivere la portentosa interpretazione di Titta Ruffo nel Rigoletto. Credo siano esistiti pochi attori capaci di dominare e soggiogare il pubblico con una tale intensità.

Dobbiamo oltretutto tenere in conto che mentre l’attore non ha altri obblighi oltre ricordarsi il verso o la prosa, il cantante d’opera è imprigionato nelle reti del ritmo musicale con tonalità già marcate, difficoltà d’intonazione e misurazione ma soprattutto deve sempre preoccuparsi della sua voce. Inoltre il cantante ha bisogno di uno sforzo mentale maggiore per svolgere il proprio lavoro.

Quasi tutti i cantanti lirici famosi tra i dilettanti brillarono come cantanti e pochi emersero come attori. Non gli mancavano di certo le doti per diventarlo ma vivevano in un’epoca che dava importanza al bel canto e per migliorare sempre di più si affidavano a maestri per affinare l’impostazione vocale e abbandonavano la parte scenica avendola giudicata non fondamentale.

Qualsiasi individuo che avesse una bella voce si lanciava nel campo della lirica sicuro di poter ottenere un posto d’onore, sebbene mancasse della sensibilità del temperamento artistico e senza approfondire lo studio della declamazione.

Titta Ruffo ha spezzato le catene che inchiodavano e opprimevano l’arte drammatica, ha abbattuto con furia gli idoli che la gente ignara venerava, ha calpestato i metodi antiquati e ha creato una nuova scuola chiamata a iniziare una seria ed utile rivoluzione nell’arte lirico-drammatica.

Perciò il nome di Titta Ruffo è pronunciato con ammirazione e rispetto da tutto il mondo. Questo cantante ha dovuto attraversare un vero calvario per arrivare alla gloria. Ha portato avanti una lotta straordinaria capace di abbattere lo spirito più forte. Altri si erano arresi nel conflitto, ma la sua tenacità, la sua costanza, la sua fede e le sue convinzioni delle quali la sua arte era la massima espressione, sono state le armi utilizzate in questa lotta ciclopica, in questo costante battagliare, dove anche grandi anime si arrendono e periscono.

Dopo Titta Ruffo ci saranno senza dubbio discepoli avvantaggiati che metteranno in pratica i mezzi d’espressione ottenuti tramite lo studio costante e accurato delle opere e le cui linee guida sono state tracciate dall’eminente baritono, fondatore di una scuola che farà immensi favori a quest’arte, sconfiggendo abitudini inammissibili in quest’epoca progressista in cui viviamo.

***

L’opera di Verdi è divisa in tre atti, dei quali il primo è composto da due quarti.

Il buffone che appare nel primo quarto è un personaggio satirico e pungente, come di mestiere, ma nel secondo quarto rivela un grande amore per la figlia che tiene gelosamente segreta per paura di amori clandestini. Nel secondo atto vediamo un uomo ferito nel suo onore, un uomo che piange, che maledice, che minaccia e che giura vendetta all’infame duca che ha infangato l’onore della figlia. E nell’ultima parte dell’opera è una tigre che assapora con piacere il risultato della sua vendetta.

Poiché la psicologia del personaggio è varia tanto da subire brusche trasformazioni, in scena c’è bisogno di un’interpretazione adeguata da parte dell’attore e di una flessibilità temperamentale propria di pochissimi artisti.

Il duca di Mantova, anche conosciuto come Francesco I, re di Francia, convoca i suoi cortigiani a palazzo per un ballo a cui partecipano tutte le dame di alto rango, seppur di moralità discutibile, per flirtare con galanti libertini.

Come in tutti gli eventi di questo genere, non poteva mancare il buffone. Ecco Rigoletto, uomo deforme e storpio, che si permette di scalfire l’onore del Conte di Ceprano, invitato dal Duca perché voglioso di ammirare la bellezza della moglie.

Titta Ruffo fa il suo ingresso in scena tra i mormorii di apprezzamento degli spettatori e inizia a cantare: Il testa che avete; signor di Ceprano.

Passa tra i cortigiani burlandosi di tutti tra le risa generali. Rimanevano in silenzio quelli offesi dalle sue parole taglienti.

In questo momento si può notare un dettaglio mai rilevato in nessun altro baritono e che nessuno tra il pubblico notò.

Titta non perde di vista il Duca e rimane sempre attento a qualsiasi indicazione gli possa dare. In fin dei conti, il Duca è il suo padrone ed è proprio lui che deve sempre compiacere.

Quando entra in sala l’anziano nobile Monterone, tutti rimangono stupiti poiché sapevano bene del comportamento depravato che ebbe il Conte di Mantova con la figlia di questo nobile e temono che si prospetti una scena violenta.

Il Conte di Monterone minaccia iracondo il Duca e allora Titta chiede il permesso al suo padrone per rispondere all’intruso. Voi congiuraste, contro noi, signore; e noi clementi in vero, perdonamo. Queste sono le parole recitate dal grande baritono in una maniera spettacolare, lasciando da parte quella voce caricaturale rivelatrice di un’ironia crudele e sanguinosa.

In questa scena l’artista mostra doti insuperabili.

L’indignazione del povero anziano è tanta quanto l’ingegno diabolico del buffone nel ridicolizzare colui che chiede vendetta per l’onore oltraggiato. Monterone, infuriato, insulta il Duca e Rigoletto, chiedendo al cielo una giusta punizione per i due rettili che hanno amareggiato la sua vita.

Il Duca rimane impassibile mentre Titta continua a sbeffeggiarsi del canuto; ma quando Monterone gli dice: e tu serpente, tu che d’un padre ridi al dolore; l’insigne baritono con un’intuizione senza pari, lascia trapelare di comprendere il suo dolore essendo anche lui padre di una figlia che ama moltissimo. Il giocattolo simbolico che stringe tra le mani cade a terra e tormentato attende con paura l’anatema che questo padre disonorato gli ha inflitto. Questa maledizione sarà un incubo infinito che turberà la sua esistenza.

Durante l’incontro con il bandito Sparafucile, Titta si mostra taciturno riflettendo sul fatto che con molta probabilità gli servirà l’aiuto di quel feroce criminale poiché se la maledizione del vecchio si avvererà, dovrà senza dubbio trovare un modo per vendicarsi.

Quando Sparafucile esce di scena e Rigoletto rimane solo, il pubblico può finalmente farsi un’idea dei meriti dell’artista. Si può dire che fino al monologo non c’era stato modo di giudicare il talento dell’attore.

Credo che non esista in alcuna opera un pezzo che unisca così perfettamente la musica con il testo teatrale.

Victor Hugo sorprese descrivendo i differenti pensieri che passavano nel cervello di quel gobbo, deriso e denigrato. Verdi dipinse con tutti i colori della musica il sarcasmo, l’ironia, la disperazione e l’odio che Rigoletto sente in quei momenti in cui medita sulla sua condizione miserabile.

Ed il grande, l’immenso, il geniale Titta Ruffo fu l’interprete supremo che l’illustre scrittore francese e l’ispirato compositore italiano potevano solo sognare.

Il monologo comincia con le parole Pari siamo, che l’autore mette in bocca al protagonista.

Titta le pronuncia dopo essersi seduto su un vecchio sgabello e dopo aver guardato il bandito, la cui figura si va lentamente sfumando nella notte. Questo sguardo accompagnato da un leggero movimento della testa è il compendio di tutta la scena e lascia un’amarezza tale da ispirare pena agli spettatori.

Io la lingua, egli ha il pugnale. Queste frasi le canta in modo meraviglioso, senza dare importanza agli effetti vocali e esprimendo con i gesti la loro ironia.

L’uomo son io che ride, ei quel che spegne. Nella prima parte di questo passaggio lascia che la voce si perda esprimendo il pensiero dell’opera in una maniera incomparabile. L’indignazione e il sarcasmo che il buffone sente mentre riflette sul suo destino crudele non potrebbero essere interpretate meglio di quanto abbia fatto il baritono. Lo spettatore nota un’accezione sgradevole nelle parole di Titta. Ciò è esattamente ciò che l’attore-cantante desiderava, portare l’attenzione sullo stato d’animo del protagonista e sull’amaro destino che il fato aveva riservato all’uomo che nacque deforme.

Ei quel che spegne, lo dice con rabbia, con impotenza, poiché non si sarebbe considerato così disgraziato se avesse avuto la forza del bandito.

Improvvisamente si ricorda di una cosa che gli ha avvelenato la vita. La conversazione con Monterone si palesa come un fantasma e l’obbliga ad interpretare quelle parole: Quel vecchio maledivami! La voce in questi momenti sembra un’eco misterioso e profetico. Sfumature di melanconia e tristezza aleggiano sul pubblico che condivide con il geniale interprete la disgrazia che lo opprime.

Dobbiamo notare che questa frase appare in tutta l’opera e lui la esprime sempre allo stesso modo perché il concetto letterario è lo stesso. Questo è un dettaglio figlio di un profondo studio e che nessun artista è mai riuscito a riprodurre.

All’improvviso si sente un vibrato provenire dall’orchestra e Titta Ruffo abbandona lo stato di abbattimento e inizia a maledire gli uomini, la natura, tutto il creato perché dà a loro la colpa della sua deformità. Urla, trascinando la sua voce imponente.

Subito dopo avviene una nuova trasformazione nella sua anima e la rabbia si trasforma in rassegnazione quando dice: Il retaggio d’ogni uom m’è tolto… Poi pronuncia le parole “il pianto!” in re acuto e la sua voce dolce e singhiozzante tocca fortemente il pubblico.

Rigoletto sperimenta mille alternative in questa scena. Per questo è proprio un pezzo in cui l’attore può dimostrare il suo talento.

Questo padrone mio, giovin, giocondo, si possente bello. In questo pezzo la voce è ben impostata, quasi dolce nelle parole giovin, giocondo; grande e maestosa invece quando dice si possente; melodiosa e affascinante nel dire bello.

Dopo attacca a mezza voce un passaggio scritto in mi bemolle acuto, che inizia con le parole fa ch’io rida, buffone… Esprime un’ira perfetta e termina il pezzo con un sorriso sarcastico e crudele. All’improvviso, trascina la voce con forza e ruggisce dall’ira incontenibile nel pensare alla sua situazione. Forzarmi deggio e farlo!

Questa frase lo sconvolge tanto che inizia a maledire i vili cortigiani. Li insulta, li minaccia, vuole confonderli, morderli, strozzarli, annientarli…

In questi momenti il gesto orgoglioso e lo sguardo iracondo di Titta Ruffo travolgono gli spettatori. La sua voce descrive in modo eloquente la drammatica situazione a cui l’insigne artista riesce a dare rilievo.

Rimane sfinito dopo questa dimostrazione d’ira e canta a mezza voce la prima frase di un andante. Ricorda di nuovo le parole di Monterone ed esclama: Quel vecchio maledivami!; lasciando la sua voce senza appoggio, completamente bianca, decisione che produce nel teatro un sentimento di profonda malinconia.

Vuole eliminare quel ricordo dalla sua mente e canta con la sua bella voce: Tal pensiero per ché conturba ognor la mente mia? Credendosi libero da questa preoccupazione, dice: Ah no; è follia! Aggiungendo una nota, sol naturale acuto, che appare con una tale esuberanza e limpidezza di suono da far partire applausi per l’artista, il quale si palesa come cantante della nuova scuola essendo in possesso di capacità incredibili mai viste prima.

Qui termina il monologo creato per Titta. Da questo momento la sua personalità resta definita come mai era stata interpretata prima, infatti fu acclamato con indescrivibile entusiasmo dal pubblico madrileno.

Titta Ruffo si consacrò quella notte come l’artista più amato dai madrileni.

Incominciarono a formarsi file lunghissime davanti ai teatri anche otto ore prima dello spettacolo per poter vedere il baritono, ciò a dimostrazione di quanto la sua bravura e la sua simpatia influenzarono tutti noi.

Quando entra in scena sua figlia Gilda il volto di Titta Ruffo si rallegra tanto da fargli quasi dimenticare le sue disavventure.

Gilda amorevolmente gli si avvicina e gli chiede chi è sua madre, come è venuta al mondo, e qual è il nome del povero buffone, quindi Titta torna triste e in un colpo risponde alle domande della figlia.

In questo pezzo, cantato con squisita emozione, appare la sua bellissima mezza voce, pregna di tristezza e come velata dalle lacrime e dai singhiozzi che lo sommergono. Quando dice: Dio, sii ringraziato, la voce è ampia, maestosa, splendida.

Che chiaro scuro ammirevole! Che interpretazione grandiosa! Sembra impossibile che la voce di questo artista sia così meravigliosa da poter esprimere tutti i sentimenti umani.

Io ho ascoltato molti artisti considerati dei divi con una voce bellissima e con assoluto dominio delle loro capacità. Riuscivano a sfumare, ad arrivare al pianissimo ed altri effetti; ma ho sempre notato l’uniformità e la monotonia del suono a cui viene dato sempre lo stesso colore variando solo l’intensità.

Titta Ruffo faceva tutto questo e in più cambiava costantemente il colore della sua voce a seconda della situazione scenica. Questa è l’originalità del baritono. Nello stesso modo in cui il prisma scompone in vari colori la luce solare, la laringe di questo cantante emette una moltitudine di suoni tutti diversi per poterli adattare all’interpretazione.

Durante il commovente duo con Gilda ci furono molti applausi.

Il finale di questo atto è grandioso.

Quando Titta si rende conto che gli hanno rubato la figlia, il suo tesoro, il suo bene più prezioso, la sua vita, si siede sconcertato e tutti i suoi atteggiamenti in scena sono simbolo del suo stato d’animo, passo incerto, agitazione, contrazione dei muscoli, singhiozzi che si sentono quando, febbrile, sale le scale in cerca della figlia; appena si rende conto del rapimento di Gilda lancia un grido straziante e crolla sul pavimento.

Lo spettatore sente dei brividi lungo la schiena mentre contempla la situazione come descritta da Titta Ruffo.

Il suo lavoro viene premiato da un’ovazione.

Arriviamo poi alla parte che possiamo chiamare terzo atto.

Il pubblico aspetta impaziente l’entrata in scena del baritono.

Dopo che l’orchestra inizia un motivetto scherzoso, si sentono da lontano le prime frasi che Titta pronuncia mentre si presenta davanti ai cortigiani fingendo indifferenza anche se osservava con inquietudine ciò che lo circonda tentando di trovare indizi sul luogo in cui si nasconde Gilda. Vede un fazzoletto sopra un tavolo e lo raccoglie credendo sia della figlia, ma guardolo più approfonditamente si rende conto che non è il suo e lo lancia via. L’arrivo del paggio chiamato dal Duca e il comportamento dei cortigiani gli fanno sospettare che Gilda si trovi nel palazzo e con voce angosciante dice: Ah ella! È qui dunque. I cortigiani lo trattengono impedendogli di inoltrarsi ancora di più nel palazzo e iniziano a fare discorsi che lasciano intendere che credano che quella giovane sia l’amante di Rigoletto.

Questo momento diventa intriso di emozioni quando ad interpretarlo è Titta Ruffo. Con altri baritoni l’intensità si appiattisce in quanto non riescono a dare alla frase io vo, mia figlia, la giusta forza per ottenere una reazione dal pubblico. Quest’artista, che durante la scena con i cortigiani non smetteva di implorare e supplicare, s’indigna tantissimo nel sentire quelle parole calunniose che rischiano di macchiare il suo buon nome.

Questo suo onore di padre offeso lo fa urlare intimando i presenti a ridargli il suo bene più prezioso, la sua adorata figlia.

Vorrebbe di nuovo aprirsi un varco per poter entrare nelle abitazioni ma i cortigiani gli si oppongono di nuovo buttandolo a terra. Si alza allora irato e con voce imponente dice: Cortigiani, vil razza dannata. Questa scena è altamente commovente, le lacrime si mescolano con le minacce e le supplice con le imprecazioni.

La famosa supplica che inizia con le parole miei signori, è piena di sentimento. Titta la canta con la voce ben impostata, con timbro purissimo, ampia e maestosa. Con la frase ridate a me la figlia rivela la pena che lo affligge. Piange con sorprendente naturalezza senza spezzare le frasi, respirazione impeccabile e tutto questo in acuto.

Tra il pubblico ci fu un’emozione generale nel sentire il baritono in questo momento in cui tutta l’amarezza e la desolazione che Victor Hugo aveva descritto venivano tradotte con una veridicità sorprendente e suggestiva.

Tra gli spettatori in piedi e pieni di lacrime partì una sonora ovazione contorniata da vari urrà e bravo.

Sotto richiesta del pubblico ripeté il numero.

Quando sua figlia appare in scena lui l’abbraccia e si rivolge ai cortigiani dicendo loro: Ite di qua voi tutti. La sua ferocia è tale da spaventare e far andare via tutti i presenti. La sua potente voce è perfetta per questa situazione.

Alla fine di questo atto appare il vecchio Monterone, sorvegliato dagli alabardieri, che chiede vendetta contro il ritratto del Duca appeso al muro.

Titta ricordò tutte le infamie che ricaddero sullo sfortunato Conte e nella testa gli appare l’idea della vendetta.

Mentre cammina Monterone dice: No, vecchio t’inganni…un vindice avrai. Qui cambia il mi bemolle; che attacca piano e che audacemente porta fino al fortissimo, sfoggiando tutte le sue facoltà, non tanto per vantarsi ma per poter esprimere al meglio l’ira e l’indignazione.

Il pubblico si intromette in continuazione urlando bravo.

Titta inizia l’allegro finale con una forza e un colore della voce straordinari. Questo numero suscita negli spettatori un’ammirazione senza eguali sia per la voce, che brilla in tutti i registri risultando imponente e maestosa sia per l’espressività dell’interpretazione.

Quando tutti credono che l’artista abbia rinunciato, parte un la bemolle acuto, larghissimo come il resto della voce e lo sostiene indefinitamente, tanto che il finale si perde tra gli scrosci di applausi del teatro.

Questa penna non può nemmeno provare a descrivere la follia che provocò tra il pubblico. Alla fine del numero migliaia di persone gridavano sino a finire la voce; tutte le mani si univano per applaudirlo e le signore sventolavano i fazzoletti in aria.

Dovette ripetere il duetto e tutte le volte l’acclamazione fu sempre la stessa.

Come continuare?

Fu egualmente festeggiato e acclamato durante il resto dell’opera come il migliore artista mai esistito.

Il Rigoletto di Titta Ruffo ci lasciò ricordi indelebili e come successe per la Favorita dopo che la interpretò Gayarre, nessun artista si azzardò a portarla in scena.

Il segreto dell’opera di Verdi è in possesso di Titta. Solo lui può valorizzarla con la sua voce, unica al mondo, creando un’interpretazione drammatica passata alla storia.

TITTA RUFFO NE IL BARBIERE DI SIVIGLIA

Entriamo adesso in un campo completamente diverso.

Dopo il buffone Rigoletto, la cui missione era quella di divertire la corte, abbiamo il chiassoso e loquace Figaro nelle cui vene scorre sangue meridionale.

Il pagliaccio, nato per il sarcasmo, si trasforma in un allegro andaluso che diverte tutti con il suo ingegno.

Rigoletto è un essere deforme che sente profondamente la sua disgrazia e sotto la sua corazza nasconde un’anima paternale e un forte spirito. Piange ridendo e ride piangendo.

Figaro è un mascalzone, sagace ma frivolo, astuto ma stupido, ingegnoso ma di spirito superficiale.

Rigoletto è buffone per soldi. Figaro lo è per temperamento.

Uno maledice il suo destino, l’altro canta di gioia. Uno ha un carattere introverso, l’altro estroverso. Uno piange per le sue disgrazie, l’altro benedice il suo destino.

Sono personaggi molto diversi tra di loro. È difficile che un artista riesca ad interpretare entrambi i ruoli perfettamente.

Il barbiere di Siviglia, scritto da Beaumarchais, ha avuto la fortuna di trovarsi tra le mani di un compositore illustre che riuscì a musicare l’opera con successo.

I personaggi che appaiono in questo melodramma sono tutti rilevanti grazie all’intuizione del grande Rossini.

Bisogna citare quest’opera come modello dell’opera buffa.

La Cenerentola, Il Conte Ory, L’italiana in Algeri, la Gazza ladra, Mosè, Semiramide e Guglielmo Tell sono tutte opere dello stesso autore e per molti anni furono essenziali nelle rappresentazioni teatrali, ma non fu così per sempre. Questi lavori di Rossini e di altri compatrioti li possiamo trovare solo negli archivi.

Senza dubbio Il Barbiere di Siviglia sarà presente per sempre nelle nostre vite poiché ha quel quid in più che manca alle altre opere. Questa mancanza non dipende né dalle melodie, né dai duetti o dai terzetti in quanto sono uguali al resto delle opere antiche italiane.

La differenza la fa il tipo di recitazione.

Il recitativo impiegato nel Barbiere è il secco cioè il basso tradizionale, usato solo nell’opera buffa.

Rossini apportò dei nuovi elementi in quest’opera, la cadenza felicità. Si è meritata gli elogi della critica ed è considerata fondamentale per molti maestri.

Il recitativo del Barbiere ha davvero un carattere grazioso e movimentato in varie inflessioni che posso determinare interrogazione, ammirazione e le diverse trasformazioni scelte dal librettista.

La flessibilità dell’opera rossiniana si manifestò nella leggiadria con cui ha saputo trasportare la psicologia dei personaggi nella partitura ed anche nel fresco ambiente in cui ha deciso di ambientare l’opera.

 Ci sarebbero molti altri aspetti da analizzare ma a me non spetta la critica dell’opera ma quella del protagonista che impersonò accuratamente l’indiavolato Figaro.

Il pubblico madrileno voleva vedere Titta Ruffo in quest’opera soprattutto dopo averlo ammirato ed applaudito nel Rigoletto.

Dopo l’annuncio della partecipazione del baritono nel Barbiere tutti i biglietti vennero venduti a prezzi altissimi.

Agli spettacoli erano presenti svariati tipi di persone.

Il sipario si alza dopo la ripetizione della famosa sinfonia e il pubblico attende impaziente la presentazione dell’amato artista.

Apparve vestito come l’epoca voleva e con la disinvoltura e leggiadria che lo contraddistinguono.

La cavatina, scritta in do maggiore, ha un tono vivace e movimentato. Non è un’imitazione di arie andaluse ed anche se è stata considerata un errore del compositore, è perfetta per comprendere al meglio il personaggio.

Se Rossini avesse usato uno o più canti regionali andalusi sarebbe incappato in gravi problemi. Figaro è un tipo allegro e chiassoso, inquieto e agitato; è una sorta di folletto che scherza, chiacchiera in tutte le situazione di genere picaresco.

Con i motivi musicali andalusi, tutti in scala minore, e pertanto di carattere melanconico, era difficile definire i tratti psicologici del Barbierecanaglia pieno di grazia e arguzia.

Titta canta e recita questa cavatina in maniera prodigiosa. Canta ciò che deve essere cantato e recita ciò che deve essere recitato.

La voce del baritono presenta varie sonorità in questo pezzo. A volte è ampia, ben impostata e sonora, altre la lascia senza appoggio e altre ancora la contraffà ossia usa il falsetto per imitare i vari timbri vocali. Ciò risulta grandioso. Tutto viene espresso con naturalezza.

I suo gesti sono molto espressivi. Il movimento del corpo, delle mani, i tratti del suo viso ed il suo sguardo picaresco dimostrano lo studio arduo e minuzioso fatto dal famoso Figaro. Nessun attore è riuscito mai ad immedesimarsi così in questo ruolo. Ciò produsse nel nostro Teatro Real una rivoluzione formidabile. La conoscevamo come una tragedia ma adesso crefiamo che il suo genio ed il suo temperamento si adattino ad immortalare il lato comico del Barbiere con la grazia genuina del buffone del romanzo.

Ripeté la cavatina tra gli applausi generali.

La parte cantata di questo pezzo presenta varie difficoltà vocali. È scritta in tessitura alta e per tre volte deve attaccare il sol acuto ed una volta anche il la acuto; tutto questo con celerità. A ciò bisogna unire il movimento del ritmo e l’abbondanza del testo per comprendere l’immane difficoltà del pezzo.

Finita la cavatina inizia il recitato con le parole: Ah! Ah! Che bella vita! In questo momento, secondo me, capiamo la grandezza dell’artista.

È sempre stato fondamentale per i vecchi maestri di canto che i loro discepoli recitassero bene; e non sbagliassero. Il recitato in un opera ha così tanta importanza da superare il canto. È impossibile cantare e improvvisare bene se non si recita come dovuto.

La recitazione di Titta Ruffo viene indubbiamente dalla scuola classica. Sottolinea con chiarezza le frasi; unisce un periodo all’altro, facendo attenzione che l’accentuazione prosaica corrisponda con quella musicale per poter rendere la dizione perfetta; ma soprattutto fa attenzione a non perdere nemmeno una sillaba. La sua vocalizzazione è così perfetta da potersi sentire anche nei punti più appartati del teatro, tutti possono apprezzare il suono della doppia T e della doppia S.

Nella quinta scena c’è un pezzo molto complicato, non solo per la tessitura acuta in cui è scritto, ma anche per la maestria che richiede per poter prendere fiato.

Quest’allegro inizia con le parole All’idea di quel metallo, frase che canta con voce piena. Subito dopo arriva un tempo vivace che comincia piano e cresce d’intensità; pieno di terzine difficilissime per la loro rapidità, soprattutto perché non c’è modo di riprendere fiato tra le battute. Titta Ruffo canta senza dubbio questo pezzo con voce impostata, senza omettere nemmeno una nota e con la grazia inimitabile di un grande attore comico.

Interpreta la parte finale del primo atto in modo meraviglioso. Dimostra grande astuzia quando consiglia al Conte di Almaviva di travestirsi da soldato per entrare in casa di Don Bartolo fingendosi inoltre ubriaco per ingannare il subdolo dottore. Questo è uno dei momenti di maggior osservazione psicologica di Titta Ruffo.

Perché d’un che poco è in se, dice a piacere violando il ritmo musicale per dare un significato adeguato alla scena. In quel momento imita una persona ubriaca che tenta di rimanere in equilibrio per non cadere a terra. Il ritmo prende l’irregolarità delle circostanze.

Il conte rimane compiaciuto dell’astuzia di Figaro, promette di ricompensarlo per i suoi servigi e davanti alla promessa dell’oro la canaglia esprime una pazza allegria che Titta traduce con gesti e salti.

Qui comincia il duetto finale, movimentato e grazioso. Titta lo adorna con fervore e a volte accelerando il movimento, specialmente quando canta già viene l’oro, già vien l’argento.

Anche questo duetto fu ripetuto tra gli applausi generali.

Alla fine del primo atto tutti iniziarono a fare commenti nel foyer e nei corridoi. Era indubbio il fatto che il baritono avesse realizzato un lavoro formidabile nel tentativo di addentrarsi nel genere buffo e questo suo trionfo venne commentato in maniera favorevole tanto che ricevette complimenti dagli stessi che lo avevano criticato per il suo stile recitativo nel Rigoletto. L’artista vinse su tutti i fronti; dimostrò la flessibilità del suo talento, grande nell’opera di Victor Hugo ed immenso in quella di Beaumarchais.

Quando si alzò di nuovo il sipario tutto il pubblico aspettava con ansia l’apparizione di Figaro, unica vera stella della serata. Interpretò la scena con Rosina con semplice ingenuità, rendendo la sua voce più tenera per convincerla a corrispondere alla dolcezza di Lindoro, povero studente innamorato che viveva solo per lei.

Di Lindoro il vago oggetto siete voi, bella Rosina; dice con voce dolce per persuaderla ad accettare la proposta di incontro. Rosina, date le buone parole del simpatico Figaro nei confronti di Lindoro, accetta la proposta e Titta, preso dall’allegria, canta un pezzo con agilità incredibile, mostrando la sua voce con tutta la grandezza del suo purissimo timbro.

Subito dopo comincia il duetto in cui introduce innovazioni nella dizione, queste produssero stupore tra il pubblico che apprezzava le ingegnosità del baritono. Finì il duetto con un attacco in sol acuto che fece alzare in piedi dall’entusiasmo tutti gli spettatori.

Salì sul palco per quattro volte ed altrettante volte il pubblico chiese il bis. Spinto da queste richieste, ripeté il duetto ottenendo nuovamente calorosi applausi. Sia dai palchetti che dalla platea si sentivano dei viva, urrà e bravo, chiedendo a gran voce un bis del pezzo.

Nel resto dell’opera la figura di Titta Ruffo cresce. È indubitabile che la personalità di questo artista è diversa da tutte le parti che interpreta.

Sembrerebbe impossibile che potesse immedesimarsi così bene nel Barbiere poiché Titta ha un temperamento drammatico e in opere come il Rigoletto e Hamlet dimostrò in maniera impeccabile la profondità che Victor Hugo e William Shakespeare hanno voluto infondere nei personaggi.

La Storia dell’Arte ha visto attori tragici magnifici e attori comici notissimi ma raramente queste due qualità si trovano in una sola persona, non perché gli artisti non abbiano il talento necessario per poter comprendere e rappresentare opere diverse ma perché le loro inclinazioni di partenza li portano a sviluppare soltanto il genere che preferiscono e le opere in cui le situazioni drammatiche o comiche rispecchiano il loro temperamento. Questo tipo di ragionamento non è altro che il Nosce te ipsum da molti tanto elogiato quanto dimenticato.

Io so benissimo che un bravo attore riesce a coltivare generi diversi perché il talento vince gli ostacoli e sa nascondere le carenze visibili solo dall’occhio di un critico esperto che analizza minuziosamente le performance. Agli occhi del pubblico si nascondono alcuni dettagli che cambiano il personaggio. La gente comune giudica l’attore a lavoro finito; non usa mai una lente d’ingrandimento riservata alle persone esperte di quest’arte.

Le frasi tanto in voga come: “Questo comico esagera qualcosa” “quell’attore è bravo ma non mi convince in quest’opera” “quest’altro ha un’indole eccellente ma in questa scena mi sembra troppo freddo”, sono affermazioni che hanno un fondo di verità. Queste pretese vaghe sono la prova che c’è qualcosa che non li aggrada e qualcosa che li porta a provare ammirazione per l’artista. Ciononostante il pubblico lo ammira, lo applaude, lo adula e lo copia. Se intendete mortificare il loro idolo o vi permettete di renderlo oggetto della vostra censura, avrete grossi ostacoli. Anche con i suoi errori e i suoi difetti rimane un attore ammirato e quindi indiscutibile.

Queste frasi vengono dette per far intendere che l’attore è bravo ma non recita in opere adatte al suo temperamento.

Questa conclusione dedotta dal critico con la forza di robuste argomentazioni è approvata dal pubblico in maniera universale.

Con Titta Ruffo non successe nulla di tutto ciò.

Il pubblico considerò impeccabile la sua interpretazione del Barbiere di Siviglia perché rispetta Figaro e dimostra, grazie alle ovazioni, che il suo lavoro è stato colossale. La stampa ebbe le stesse opinioni, infatti riempirono le loro colonne di elogi per l’ineguagliabile Titta ed anche i critici più severi dissero che il buffo personaggio di Beaumarchais fu ricreato nel nostro teatro Real dal geniale e portentoso artista Titta Ruffo la cui carriera in questo campo non è solo brillante ma anche un esempio per tutti.

TITTA RUFFO IN HAMLET

Il genio portentoso di Shakespeare ha avuto modo di analizzare con attenzione il cuore umano nelle sue grandezze e nelle sue miserie.

Come il chimico scopre nuove formule mescolando gli acidi e il fisico analizza radiazioni grazie allo spettroscopio, così il gran drammaturgo inglese, che intuì che i segreti di una persona si trovano nel profondo del loro cuore, seppe dare nuove forme alle molteplici passioni che alimentano l’uomo e grazie alla bellezza della sua dialettica espresse nelle sue immortali opere la concretezza delle sue idee.

Il teatro di Shakespeare è uno degli studi più profondi della psiche umana.

L’Amleto è considerata una delle maggiori opere di questo autore.

Il compositore francese Ambrosio Thomas tentò di musicare l’opera ma non ebbe successo, infatti l’inspirazione non fu sua amica. Salvo il quarto atto e il duetto del primo, il resto non è all’altezza del grandioso dramma.

Quest’ opera ha bisogno di una baritono come Titta Ruffo, che, in quanto attore e cantante insieme, deve tentare di trovare l’ispirazione per carpire la vita che Shakespeare aveva infuso in questo personaggio.

Riuscirci è molto difficile.

La musica di Thomas sminuisce le situazioni sceniche e distorce le idee del drammaturgo alterando il personaggio e complicando così i suoi modi d’esprimersi.

Occorre un’abilità straordinaria per poter fronteggiare questi pericoli ed un talento colossale misto ad una voce poderosa per poter ottenere degli applausi.

Titta Ruffo, che dentro di se ha Amleto, proprio come ha Figaro e Rigoletto, mise in scena l’opera di Shakespeare ottenendo un gran successo. La sua interpretazione è stata perfetta come mai vista prima al teatro Real che ha ospitato tante eccellenze.

In Hamlet il baritono riesce a creare qualcosa di speciale, non solo come attore ma anche come cantante.

Questo suo modo specifico di recitare, queste scordature tanto sottolineate dai critici ignoranti, queste strisciature che tanto sorprendono i fan scadenti e tutte queste caratteristiche originali e personali del geniale artista, capace di elevare il materiale più di qualsiasi altro cantante moderno, costituiscono il segreto della sua fama e della sua grandezza. In quest’opera ogni cosa è espressa nella maniera adeguata.

Amleto piange e ride, ama e odia, dubita e annuisce, benedice e uccide.

Come è possibile che con una sola voce riesca ad esprimere tutte le passioni? L’uniformità del suono corrisponde all’eguaglianza del sentimento: perciò sono necessari vari mezzi d’espressione vocale per tradurre fedelmente idee e situazioni diverse.

La grandezza di Titta era proprio questa; tradurre con la sua voce le bellezze del dramma. Perciò è geniale ed è considerato da tutto il mondo la figura più importante della scena lirica.

***

C’è molta felicità nella corte danese e per buoni motivi. La regina vedova si risposa con Claudio mentre il corpo del defunto re è ancora caldo. Usa musica e balli per mettere a tacere tutti i rimorsi che sente. I cortigiani condividono quest’entusiasmo con la regina e il re consorte.

Vengono organizzati balli e feste per commemorare il fausto evento. Tutti saltano e ridono, ebbri di piacere.

Sono solo due le persone che soffrono, due innocenti uniti da un vincolo d’amore: Amleto e Ofelia.

Il principe pensa al suo defunto padre ed appare addolorato. Ofelia soffre in quanto il principe, suo promesso, è triste.

Titta Ruffo, il quale ha studiato molto a fondo la psicologia del personaggio, si presenta in scena giù di morale e preoccupato, portando con se un libro, compagno inseparabile. Davanti a lui sente suoni confusi di musica e voci che si perdono nelle logge del palazzo.

Vano duol, fuggevole affetto, sono le sue prime parole alle quali aggiunge una tinta di profonda malinconia.

Traspare dalla sua voce una tristezza che lo invade poiché non riesce a comprendere il comportamento della madre dimenticatasi in così poco tempo del suo primo marito. Per questo usa i seguenti sostantivi per definire quella donna: incostanza e fragilità.

Ofelia afflitta gli chiede qual è la causa della sua pena e perché vuole fuggire dal suo paese lasciandola sola.

Titta riesce ad esprimere con voce e gesti tutto il suo sconforto. Non ha fede in nulla, vuole fuggire il più lontano possibile, dove non esistono creature umane perché sono tutte malvagie. Il suo animo abbattuto lo costringe a rivelare che nel suo cuore non c’è più spazio per l’amore di Ofelia.

Perdona celeste creatura accusar ti non so! Le dice con una mezza voce che arriva al pubblico, delicata, soave, dolce benché piena di sentimento.

Il duetto che inizia con le parole nega se puoi la luce è una pagina che Titta Ruffo ha espresso con un’intuizione sovrumana e superiore a quanto scritto dalla piuma.

Tutti i bravi baritoni cantano questo duetto a mezza voce eseguendo tutti i regolatori e tutte le tonalità che l’autore ha creduto giuste per il pezzo. È chiaro che l’udito non rimane appagato quando lo si esegue nella maniera indicata. La bellezza del suono arriva ma non produce le giuste sensazioni. Il cantante si deve rendere conto che la musica è il veicolo della frase letteraria.

Il geniale Titta canta questo duetto con la voce senza appoggio che pare bianca e diafana, cercando di donare un sentimento di tenerezza indistinguibile che arriva con una forza poderosa. È un numero pieno di bellissima poesia grazie al gran baritono.

Ovazioni formidabili partirono da tutta la sala.

Alla fine dell’atto ha luogo la scena della spianata.

Qui si percepisce in Titta Ruffo la tragedia e la sua capacità di sentire le situazioni spaventose brutale realisticità.

Spettro infernal, dice con voce affannosa per colpa del turbamento che lo assilla.

Quando si avvicina al fantasma, crede di riconoscere in lui un suo amato, un’immagine venerata. Questa frase la canta con voce ben impostata e con una dolcezza senza limiti. All’improvviso prova una sensazione di intensa allegria e mormora: O mio padre! Ma oltre ad essere suo padre, torna in mente a Titta l’idea di maestà e quindi con voce grande e robusta dice: O mio re!

Rispondi, ohime! Tuo figlio t’implora! Quanto sono grandi l’intuizione sovrana e il sentimento filiale con i quali esprime in quell’istante il suo amato desiderio che il padre gli rivolga parola.

Parla a me, dice allo spettro in tono di supplica.

In questa parte risaltano in modo straordinario le sue facoltà. L’espressione gestuale è molto suggestiva e nel vederlo discorrere nella scena con la vacillazione di chi sta guardando qualcosa dell’oltretomba, lo spettatore sente il brivido del sublime.

Non esiste perfezione più grande, l’attore e il cantante si fondono in un modo così omogeneo da non far capire quale performance supera l’altra.

Alla fine dell’atto, tutto il pubblico applaudì freneticamente. Si dovette presentare in scena varie volte poiché l’entusiasmo era tale che gli spettatori non erano soddisfatti di solo una, due o tre performance: volevano dimostrargli la loro ammirazione obbligandolo a rimanere in scena.

Arriva il secondo atto e anche nella scena con Ofelia come in quella con il re e la madre si mantenne sempre sulla linea psicologica del principe nostalgico e pensieroso.

Il pubblico sa che durante il brindisi il baritono elettrizza l’atmosfera e quindi aspetta con impazienza che arrivi il momento desiderato.

La voce di Titta brilla con tutti gli splendori che anche il più esigente possa volere. L’emozione travolge tutti gli animi poiché alla grandezza della voce si aggiunge una dizione perfetta.

Titta, che appare felice in volto, dentro di se rimane attanagliato dalle sue preoccupazioni e diventa così il filosofo scettico che pensa alle fragilità e alle miserie umane.

Questo veloce cambio di spirito si ripercuote sulla sua voce che appare sia vaga e incolore che triste e malinconica.

Mai avevo sentito questo pezzo interpretato così bene.

La vita è breve, la morte viene, nessuno sarebbe stato capace di dirlo in maniera più originale.

Gli spettatori si guardavano tra di loro meravigliati dal grandioso adattamento della voce con la scena.

All’improvviso si alza in piedi e ripete il brindisi con notevole brio e con un’intensità sempre più grande; termina con una fermata travolgente, prodigiosa per rapidità, per il fiato sbalorditivo che richiede e per la sua struttura incredibile. Attacca quattro volte in sol acuto con forza straordinaria.

Tutto il pubblico si alza in piedi applaudendo quest’ultimo passaggio. Bravo, urrà, grida, mani e foulard al vento. Una vera follia d’entusiasmo. L’applauso più lungo che si sia mai sentito nel teatro Real.

La rappresentazione si interruppe per qualche minuto. Dovette ripetere il brindisi ed alla fine ci furono le stesse ovazioni e le stesse grida. Salì sul palco per dieci volte.

Nella scena della pantomima usò nuovamente il suo talento drammatico mentre accentuava tutte le frasi con note più crudeli. L’interesse scenico cresce sempre di più e dà alla sua voce un nuovo vigore quando rimprovera il re Claudio per il suo nefasto crimine. Si agita e cerca di aizzare i cortigiani contro l’usurpatore della corona e fa avanti e indietro sul palco chiedendo una giusta vendetta contro l’infame. Non parla e non canta. Dice tutto gridando.

La forza drammatica con la quale dà rilievo a questa tremenda situazione è davvero sorprendente.

Si alza irato e tremolante, sale i gradini del trono per strappare la corona dalla testa dell’assassino. I suoi due amici, Orazio e Marcello, lo trattengono. Riesce a staccarsi da loro ed inizia un brindisi in cui attacca e sostiene un si bemolle grande, bello e timbrato.  

Al termine della performance si sentì un entusiasmo indescrivibile. La piuma non può di certo descrivere tutto l’entusiasmo che si ebbe in onore dell’immenso Titta Ruffo.

Benché mancasse ancora il terzo atto!

Quando il sipario si alzò tutti gli sguardi si posarono sull’artista.

Iniziò il monologo, una delle creazioni più belle di Shakespeare.

Esser o non essere! Dice Titta con voce senza appoggio e con accentuazione ammirabile. Quanta desolazione e quanta pena rivela quel suono che si disperde dalla sua gola! Che maniera sublime e delicata di interpretare la situazione di scoraggiamento che l’autore ha messo in questo punto dell’opera!

Morir, dormir, sognar! Queste parole le sospira. Sono riflesso dello stato del suo spirito e con la sua voce ottengono un colore espressivo perfetto che lui valorizza con i suoi gesti.

Oppresso dal peso di queste riflessioni, esclama: Oh mistero! Qui trascina, stona perché è il grido dell’impotenza. Il suo intelletto non vede il problema con la lungimiranza che vorrebbe. Tramite la sua immaginazione i ricordi dell’infanzia appaiono con confusione orribile, l’attenzione con cui è stato creato, i suoi amori con Ofelia, la morte prematura del suo adorato padre, le nuove nozze della madre, l’apparizione dell’ombra paterna che si alza dal sepolcro per denunciare le debolezze della madre ed il nefando crimine che questa ha commesso. Tutto questo cumulo di idee si sparge nel cervello del malato principe e lo fa gridare arrabbiato contro il destino crudele creatore di questa orrida trama che lo ha avvolto.

Quando sente dei rumori si nasconde. Sulla porta appare un’ombra. È il re Claudio.

Titta mette la mano sul pugnale ma si ferma quando nota che l’usurpatore si sta inginocchiando davanti all’effige del defunto re, senza dubbio per chiedere perdono.

Nel momento in cui Claudio se ne sta per andare, arriva Polonio, padre di Ofelia. I due scambiano delle parole e Titta rimane esterrefatto nel capire che il padre della sua promessa sposa era complice del tremendo crimine.

In questa situazione colei che lo sorprende è sua madre. Invano cercava di restituirgli un po’ di felicità proponendogli le nozze con Ofelia.

Titta, indignato, respinge tale offerta. Non può più provare allegria. Si avvicina a Ofelia e le dice: Deh vanne in un chiostro! Canta questa melodia con voce scomposta ma con un suono che ricorda un eco misterioso di un’anima che geme e piange.

Da qui in avanti è impossibile descrivere la sorpresa che il lavoro dell’esimio artista causa tra il pubblico.

Dopo una scena violenta, che termina con lui che getta sua madre al suolo, va a prendere il pugnale che sta sopra il tavolo e i suoi occhi incrociano il ritratto del suo amato padre. In quell’istante pensa all’ordine del padre che gli ricorda che la vendetta contro la madre deve essere affidata al cielo.

Prende tra le mani il ritratto e dice: Mira! Canta, o meglio, sospira un tenera melodia che è il compendio delle virtù paterne. Nell’ultima frase, scritta sopra le parole, è il tuo sposo primier, gli escono dalla gola dei teneri singhiozzi che, per essere espressi bene, hanno bisogno di un temperamento come quello di Titta Ruffo, che gli infierisce una forza insuperabile.

Subito dopo avviene una grande trasformazione nel suo spirito e l’idea della vendetta si fa tenace nel suo cervello. Strappa il medaglione con il ritratto del padre che la madre porta al collo con mani tremolanti e lo butta sul pavimento.

Con un’accentuazione drammatica lancia un anatema contro gli assassini, maledice sua madre e si prepara ad ucciderla, quando gli appare lo spirito del padre che gli ricorda che è proibito attentare alla vita di chi lo ha creato.

È un momento indicibile. Le grida di paura soffocate nella gola di Titta Ruffo sono espresse in maniera meravigliosa. Durante tutta la scena è tremolante, alterato e atterrito, si dirige verso il fantasma e si inginocchia ai suoi piedi, singhiozzando vistosamente.

Quando vede che la figura del padre sta svanendo, Titta si ritira e dice alla madre che può dormire in pace.

Il pubblico rimase sorpreso dal modo impeccabile in cui Titta aveva saputo dare vita al personaggio di Shakespeare.

È impossibile dare un’idea del successo che ottenne.

È stato altrettanto impressionante del trionfo ottenuto con il Rigoletto.

Si presentò in scena varie volte per poi essere acclamato come il più grande genio che la nostra generazione abbia mai visto. Il nostro pubblico si espresse con dimostrazione di amore e ammirazione nei confronti di Titta Ruffo.

La stampa dedicò intere colonne al lavoro dell’insigne baritono figlio della bella Italia e nelle cui vene scorre il sangue di un genio.

TITTA RUFFO RIVOLUZIONARIO

Insieme a questo scritto anni fa pubblicai un articolo sul giornale El Correo Español.

L’apparizione di Titta Ruffo in quella memorabile notte del suo primo Rigoletto mi ha fatto pensare al suo modo originale di costruire e recitare le opere. Il carattere che imprimeva anche nelle frasi più insignificanti rivelava intuizioni non comuni e la moltitudine di colori con cui dipingeva la sua voce in determinati passaggi mi indussero a studiare più da vicino questo artista.

Ogni volta che lo sentivo rinasceva in me la stessa speranza che provavo tempo addietro, quando leggevo le opere degli opinionisti del gran Wagner.

È possibile che quando tutte le scienze e le arti vanno avanti con estrema rapidità, l’arte lirica rimane ferma?

Inoltre, è evidente che abbiamo perso terreno, perché i cantanti di una volta coltivavano le tradizioni liriche con maggior cura rispetto ad oggi. Studiavano per molti anni per ottenere perfezione artistica, cosa che oggi è ignorata.

È indubitabile che questa popolarità di artisti mediocri di oggi, che per di più si fanno pagare caro, è il frutto dell’apertura di molti teatri, principalmente nelle due Americhe.

Anticamente il numero di teatri era limitato e per questo dovevano crearsi le condizioni perfette per poter entrare nelle compagnie liriche che si formavano.

I gusti dell’epoca derivavano dal bel canto e gli interpreti erano costretti alle correnti che il periodo richiedeva. Molti divennero veri maestri, cantavano con dominio sorprendente delle loro facoltà e vincevano ostacoli insuperabili che i compositori inserivano nelle opere.

Quando sentii Titta Ruffo mi parve diverso da tutti gli altri poiché apportava all’arte lirica nuove tecniche che l’avrebbero risanata.

In verità Titta, cantante eccezionale dotato di una grande voce e di un timbro poderoso, è anche un fantastico attore che riesce a tenere botta ai grandi del teatro come Sarah Bernhard, Eleonora Duse, Zacconi, Novelli, Borràs ecc.

Ma non si tratta solo di questo. L’originalità che sta nella personalità di Titta Ruffo la vediamo nel modo in cui riesce a tradurre con la voce i concetti del dramma. Ha nel suo arsenale un organismo privilegiato che gli permette di emettere suoni distinti adatti alle esigenze testuali.

Inoltre ha un temperamento artistico colossale e ha studiato le opere scrupolosamente, non solo negli accordi dei librettisti ma si è nutrito anche dei concetti degli autori. È un fine osservatore della natura e vive innamorato della sua arte che coltiva con fervore.

Conosce in dettaglio la storia del teatro dai greci ai nostri giorni, infatti la sua cultura è vastissima.

Il nome Titta Ruffo, che oggi brilla di luce propria in tutto il mondo, sarà sempre più importante perché è a lui che dovremo essere grati delle radicali trasformazioni che tra non molto l’arte lirica sperimenterà.

Gloria all’immenso artista che con il suo poderoso talento ha creato una nuova scuola chiamata a mettere in atto una profonda rivoluzione nel mondo dell’opera.

N.d.r nel 1910  nascita del figlio Ruffo jr.

Copyright immagin@Titta Ruffo


  • "Mai la tecnica ha fatto artista nessuno, ma mai nessuno è diventato artista senza la tecnica”.

    Enrico Caruso

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